L‘Agenzia per l’Italia digitale annuncia la creazione del “domicilio digitale” per i cittadini e l’istituzione di una nuova (la quarta o la quinta) firma elettronica, digitale, qualificata o come preferite chiamarla.
Sono due scelte sbagliate dal punto di vista giuridico e da quello dell’efficienza, che comportano rischi notevoli per (la maggior parte dei) cittadini non in grado di realizzare il significato legale di queste innovazioni e capire come utilizzarle.
Partiamo dall’ennesima firma elettronica, che ha una storia legislativa particolarmente tormentata. Nel 1997, il DPR 513 istituisce la firma elettronica, poi, nel 2002 un recepimento incompetente della direttiva 99/93 introduce la firma elettronica non qualificata, quella qualificata e poi una sua sottospecie, quella digitale che viene definita come particolare tipo di firma elettronica qualificata. E poi c’è anche la firma grafometrica (quella scritta con un pennino su uno schermo, registrando i parametri classici della scrittura, come velocità, pressione, inclinazione del pennino ecc.) che in realtà è l’unica a garantire la possibilità di perizie anticontraffazione quasi impossibili da contestare. Mentre ora, infatti, la perizia grafica è sostanzialmente affidata all’occhio del grafologo, con la firma grafometrica è possibile comparare due firme con la messa a confronto dei parametri fisici che le caratterizzano, rendendo oggettivo il risultato.
Ma basta con le divagazioni e torniamo al punto.
Con il passare del tempo il caos aumenta, e solo la prassi fornisce un criterio per capire quale accidente di firma elettronica bisogna usare: quella digitale (si, il “particolare tipo di firma elettronica qualificata”). Da dove arriva questa certezza? Dal fatto che la trasmissione telematica dei bilanci e – soprattutto – gli atti giudiziari nel processo telematico utilizzano, appunto, questa sottospecie (senza offesa) di firma elettronica.
E’ semplice capire, dunque, che non c’è bisogno di un’altra firma elettronica. Istituirla è solo uno spreco di tempo, soldi e risorse.
Veniamo ora alla questione del “domicilio digitale“.
Al di la delle scorciatoie di marketing politico, “domicilio digitale” significa una cosa molto chiara: attribuzione di una casella di posta elettronica certificata e conseguente possibilità per la pubblica amministrazione e per gli avvocati di notificare cartelle esattoriali, ingiunzioni di pagamento e atti giudiziari con piena efficacia legale. Tradotto: se una persona riceve un decreto ingiuntivo nel suo “domicilio digitale”, non apre il messaggio o il file allegato (o, molto più probabilmente, non riesce a farlo), decorre il termine di legge per l’opposizione e questa persona si troverà a subire un pignoramento ingiusto dal quale, secondo la giurisprudenza, non potrà difendersi eccependo di non saper usare il computer (casistica reale e documentata).
Ma mentre la legge italiana presuppone – vista l’esistenza della scuola dell’obbligo – che chiunque sappia leggere e dunque sia in grado, almeno, di capire che ha bisogno di rivolgersi a un ente pubblico o a un legale per chiarimenti o contestazioni, non esiste una presunzione analoga per quanto riguarda l’uso dell’informatica.
In altri termini, non esiste una presunzione di legge secondo la quale tutti sanno usare un computer, i client per la firma digitale e la posta elettronica certificata.
Imporre ai cittadini di subire le conseguenze giuridiche e giudiziarie derivanti dall’utilizzo di uno strumento che non hanno l’obbligo di saper usare equivale a dire che la pubblica amministrazione può dialogare con i cittadini in Sanscrito e pretendere che le persone lo imparino da soli.
Questo è potuto accadere per due ragioni: o il Governo ha messo in piedi un colossale progetto per “fare cassa” fidando sul gran numero di persone che non riusciranno a impugnare in tempo verbali, cartelle e ingiunzioni di pagamento, o non si è reso conto di questo effetto collaterale a danno dei cittadini.
Non saprei dire, dei due mali, quale sia il peggiore.
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