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News e comunicazioni

Superare il divario culturale aiuta a formare un unico team vincente

Mentre aumenta il forte desiderio di accordi transnazionali, le scuole di business stanno facendo incetta di pareri da intese societarie che hanno dato buoni frutti, malgrado previsioni contrarie, nella speranza di ricavarne qualche utile insegnamento per i manager alle prese con la necessità di superare le divergenze culturali. I casi di studio esplorano vari esempi del passato per imparare in che modo trasformare le avversità in successo.

Per esempio, pochi avrebbero scommesso su un buon esito quando Haier, produttore leader in Cina di elettrodomestici, ha stretto una joint venture con Sanyo Electric per realizzare frigoriferi in Giappone: questo episodio di storia aziendale risale al 2007 ed è stato studiato dai ricercatori della Iese Business School in Spagna. Tra la forza lavoro giapponese si facevano molte speculazioni sul fatto che Haier, partner di maggioranza, volesse semplicemente strappare a Sanyo il suo know-how. «Predominava l’incertezza. Avremmo collaborato a lungo termine o tramite quel contratto avevamo solo l’intenzione di impossessarci della loro tecnologia?», si chiede Du Jingguo, direttore generale di Haier in Asia.

Sul piano culturale, le due società appartenevano a due mondi diversi. Mentre Haier promuoveva i dipendenti e il suo staff sulla base del merito e li retribuiva in funzione dei risultati, Sanyo da tempo aveva sposato la tradizione giapponese di promuovere qualcuno in base all’età e all’anzianità del rapporto di lavoro. Imperterrito, Du ha suddiviso la forza lavoro giapponese in gruppetti e notte dopo notte, tra allegre bevute, ha dipanato i problemi ascoltando le varie preoccupazioni.

Alla fine, il suo approccio soft è stato ripagato. Guidato da quello che ha appreso, infatti, Du ha iniziato a promuovere i dipendenti più giovani, ma in modo tale da non offendere l’orgoglio dei loro superiori, ai quali oltre al pensionamento sono stati elargiti titoli onorifici e sono state date opportunità di lavoro per risarcirli almeno in parte della perdita di reddito prevista. L’opera di mediatore di Du ha contribuito nel 2012 a spianare la strada per l’acquisizione da parte di Haier delle attività di produzione di elettrodomestici di Sanyo in Giappone e in altri mercati del sud-est asiatico. Peccato che il prezzo pagato non sia stato indifferente: «Dopo due anni di bevute, mi è venuta un’ulcera gastrica», ha detto Du.

Le acquisizioni sono uno strumento molto importante per le aziende per crescere e per acquisire know-how. Ora che le attività globali di fusione e acquisizione sono tornate a livelli non più visti dal 2007, gli accordi spesso sono stretti a livello transnazionale, e le aziende dei mercati emergenti sono tra quelle che spendono di più. Nel 2016, secondo Deloitte, gli acquirenti cinesi hanno speso dieci volte più delle aziende europee.

In ogni caso, gli studi di solito mettono in evidenza che nel 40-70 per cento dei casi gli accordi non sono così remunerativi. Da uno degli studi sull’integrazione post-accordo, condotto nel 2011 da Aon Hewitt, società di consulenze, risulta che un terzo delle aziende imputa la mancanza di successo di tali operazioni alla cultura aziendale diversa. Nel caso di accordi che vedono fusioni tra aziende di mercati avanzati ed emergenti, le statistiche possono essere ancor più negative. Oltre alle differenze imputabili alle varie etiche aziendali e a tutti gli altri azzardi che portano una fusione alla rovina – tra i quali sistemi informatici incompatibili e scontri di personalità – c’è anche il rischio di incomprensioni sul piano culturale. Che cosa possono fare dunque le multinazionali per migliorare la loro percentuale di successo? Dopo una fusione, qual è il metodo migliore che possono adottare aziende di culture appartenenti a mondi diversi che vogliono lavorare insieme?

Un primo passo nella giusta direzione – dice Sebastian Reiche, professore associato alla Iese Business School e coautore dello studio sull’acquisizione di Sanyo Electric da parte di Haier – consiste nell’incoraggiare e stimolare i dipendenti con background multiculturali che hanno vissuto e lavorato in entrambi i paesi interessati e parlano la lingua locale, così da farli diventare punti di collegamento e riferimento tra i quartieri generali delle diverse aziende e il management locale.

Quando un acquisitore straniero rileva un’azienda, spesso i dipendenti nutrono timori per il futuro: i loro posti di lavoro saranno delocalizzati? I nuovi proprietari capiranno come sono e cosa vogliono i loro clienti? Invece di immaginarsi già espatriati e rischiare un crollo mentale, farebbero sicuramente meglio a mantenere la leadership locale e a far tesoro di ciò che ha reso l’azienda un successo. Per dirla con le parole del professor Reiche, insomma, «non si distrugge l’asset che si acquista».

Infosys, la società indiana di tecnologie informatiche, è alle prese col duplice dilemma di come integrare le acquisizioni straniere senza soffocarne lo spirito imprenditoriale e senza entrare in rotta di collisione con le differenze culturali. Rajesh Krishnamurthy, che dirige Infosys Consulting, riporta il caso di Noah Consulting, un’azienda di management con sede a Houston, tuttora guidata dai suoi fondatori sotto l’egida di Infosys, diventata l’esempio di come un’acquisizione può giungere a buon fine. Per aiutare i fondatori a integrare la loro azienda nei sistemi della loro nuova casa madre, Krishnamurthy ha assunto due manager di origini indiane impegnati nelle operazioni di Infosys negli Stati Uniti. Avendo vissuto sia in India sia negli Usa, i due manager sono stati in grado di assicurare la indispensabile mediazione linguistica tra Houston e Bangalore.
Krishnamurthy fa notare che mentre alcuni, per lo più gli americani, tendono a dire chiaramente come stanno le cose, gli indiani cercano di trasmettere il loro punto di vista con giri di parole tortuosi, e spesso detestano dire di no.

I suoi commenti sono avallati dall’analisi degli stili di comunicazione effettuata da Erin Meyer, professoressa di comportamento aziendale presso l’Insead. Quando si incontrano due mentalità che hanno stili troppo diversi nel dire che non vogliono una data cosa, fa notare nel suo libro «The Culture Map», l’unico risultato che si ottiene è l’equivoco. «Agli altri può sembrare che noi vogliamo solo menare il can per l’aia», dice Krishnamurthy.

Perfino le aziende che apprezzano l’importanza culturale possono essere messe sulla cattiva strada dalle differenze che non sono capaci di anticipare. Nathan McDonald, cofondatore di We Are Social, un’agenzia con sede a Londra di servizi marketing, acquisita nel 2013 da Blue Focus, il più grande gruppo di servizi marketing in Cina, mette in evidenza la velocità a rotta di collo con la quale l’azienda è guidata in alcuni mercati emergenti come potenziale punto d’aggancio negli accordi tra aziende di culture diverse. «In Cina tutti hanno molta fretta perché la crescita è rapidissima», dice.

McDonald ricorda il momento spinoso in cui la direttrice delle risorse umane di Blue Focus propose di far visita al suo team, ma con un preavviso così breve che per riceverla lui e il suo partner avrebbero dovuto cancellare alcuni appuntamenti presi già da tempo con i loro clienti. Così i due hanno risposto per posta elettronica sottolineando che, pur non vedendo l’ora di conoscerla e di trascorrere del tempo insieme, i loro impegni nei confronti della clientela dovevano avere la precedenza. Adesso le aziende calendarizzano una telefonata al mese nel corso della quale programmare le visite. McDonald dice: «Noi abbiamo imparato a calibrare le nostre aspettative, adeguandoci ai loro ritmi, e loro si sono adeguati un poco ai nostri».

Se da un lato gli acquirenti devono rispettare le differenze culturali, dall’altro tenere uno stile di management del tutto distaccato può non essere la risposta giusta. Perfino le società controllate che aspirano all’autonomia amano sentirsi connesse e parte di tutto il resto, dice Krishnamurthy. Per la gestione di imprese singole ci sono inconvenienti di ordine commerciale: se ogni azienda opera in condizioni di totale isolamento, non vi è alcuna condivisione del know-how e non si apprende nulla dai successi e dagli errori altrui.

Organizzare visite contraccambiate e moltiplicare le occasioni per collaborare a progetti condivisi può essere un primo modo per alimentare un senso di identità comune. Da Infosys i lavoratori delle varie affiliate al gruppo sono incoraggiati a partecipare a forum mensili e presentare le loro innovazioni migliori, così da poter condividere le buone idee. Le differenze locali nelle tutele di cui i lavoratori usufruiscono in relazione a questioni come disabilità, salute e sicurezza, pari opportunità e diritti per la comunità LBGT sono un altro scoglio sul quale le imprese devono trovare un compromesso. Anche se per operare legalmente a livello locale è sufficiente e indispensabile rispettare le leggi del posto, applicare politiche diverse a livello internazionale può esporre le società all’accusa di ipocrisia.

Per evitare problemi di questo tipo, i forum dei datori di lavoro – come Business Disability International – raccomandano di adottare politiche chiare e ben definite in relazione all’uguaglianza di genere per l’intera azienda e a livello globale. Da parte sua Du resta determinato ad alimentare lo spirito imprenditoriale con grande sensibilità culturale. Anche se i progressi sono assai lenti – per persuadere i lavoratori giapponesi ad accettare i principi di base degli incentivi legati alla performance individuale ci sono voluti sei mesi di discussioni – sostiene che un’alternativa non c’è. «In qualità di manager posso anche emettere un’ordinanza precisa. Ma se la gente non ne condivide lo spirito, l’ordinanza resta insignificante», dice Du.

Copyright The Financial Times Limited 2017
(Traduzione di Anna Bissanti)

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